La storia di un popolo che tornò a sorridere e il legame d’amore tra Riva e il Cagliari: c’è questo e altro dietro il miracolo di quella sorprendente squadra.
Era tutto diverso, un’altra Italia e anche un altro calcio. Parliamo della fine degli anni Sessanta, quando ancora la vittoria valeva due punti e gli scudetti si vincevano solamente al nord. E poi le magliette erano semplici, con pochi dettagli, così come i pantaloncini tanto corti da non coprire nemmeno mezza coscia. Era tutto molto diverso, ma l’impresa del Cagliari quel 12 aprile del 1970 si accosta perfettamente ai giorni nostri. Se pensiamo al Leicester abbiamo in mente l’immagine di una squadra che ha fatto la storia, una favola che piano piano è diventata una meravigliosa realtà. Ecco, quel Cagliari e il Leicester hanno molto in comune perché in entrambi i casi ha vinto una terra dimenticata, perché la tradizione è stata rotta e ogni altro schema stravolto. Perché è avvenuto un miracolo.
I sardi ottengono il primato nazionale entrando nel mito di un popolo che non avrebbe più conosciuto una gioia simile. Due gol al Bari in uno stadio gremito di tifosi e titolo conquistato con due giornate di anticipo, grazie anche alla contemporanea sconfitta della Juventus in casa della Lazio. Il Cagliari di Riva, Albertosi, Domenghini, Nené e tanti altri ottimi giocatori chiude con 45 punti, sopra alle più blasonate Inter, Juventus e Milan, coronando un sogno partito dai piccoli campi della Serie C e proseguito con una scalata fino alla massima serie.
Solamente un anno prima, nella stagione 1968-69, i rossoblù avevano sfiorato il tricolore lottando fino alla fine e piazzandosi alle spalle della Fiorentina. Con il trionfo dell’anno dopo, finalmente si parlava del Cagliari dando vita a tutta la Sardegna. Come scrisse il giornalista Gianni Brera:
Lo scudetto del Cagliari rappresentò il vero ingresso della Sardegna in Italia. La Sardegna aveva bisogno di una grande affermazione e l’ha avuta con il calcio, battendo gli squadroni di Milano e Torino, tradizionalmente le capitali del football italiano. Lo scudetto ha permesso alla Sardegna di liberarsi da antichi complessi di inferiorità ed è stata un’impresa positiva, un evento gioioso.
Era un’isola intera ad esultare quel giorno, era la festa di chi aveva perso speranza e fiducia e ritrovava di colpo il sorriso.
Prima Riva in tuffo di testa schiaccia la palla in rete, poi Gori chiude i conti con un potente tiro sotto la traversa: il Cagliari batte il Bari allo stadio Amsicora e cominciano i festeggiamenti. Durarono per giorni, d’altronde per la prima volta una squadra del sud e di un’isola riusciva a vincere il campionato. E dopo cinquant’anni dalla sua fondazione (1920) il Cagliari conquistava il suo primo e (finora) unico scudetto.
L’entusiasmo era incontenibile a tal punto che ad Olbia tre tifosi juventini furono obbligati ad indossare la maglia del Cagliari e furono organizzati centinaia di falsi funerali di rivali dei rossoblù. Vennero esposti striscioni goliardici con la scritta “Benvenuti nella capitale del calcio“. L’Unione Sarda, il più antico e diffuso giornale della Sardegna fondato nel 1889, il giorno dopo lo scudetto vendette 125mila copie, un numero mai raggiunto in precedenza.
Quella squadra aveva coinvolto un popolo intero, liberandolo per un po’ dalla povertà e dalla monotonia. Quel Cagliari era di tutti, di chiunque lo amasse e a nessuno poteva essere impedito di tifarlo. Addirittura due latitanti furono arrestati allo stadio ma fu loro permesso di assistere al resto della partita in manette. L’intera Sardegna tornava a splendere, un’isola che era ancora disperatamente povera persino alla fine degli anni Sessanta e i cui abitanti erano costretti ad emigrare per trovare lavoro.
Parte della regione era sotto il controllo dei banditi, i sequestri di persona erano all’ordine del giorno, l’economia si basava solo sulla pastorizia. Gli ultimi anni Sessanta però videro una progressiva modernizzazione: il turismo di massa stava iniziando a distruggere la meravigliosa costa orientale dopo che l’Aga Khan – principe musulmano-ismaelita – si era accaparrato ingenti zone di terra nei primi anni del decennio.
Lo scudetto del Cagliari arriva come un fulmine a ciel sereno, anche se la squadra guidata dal ‘Filosofo’ Manlio Scopigno godeva già di calciatori affermati. Primo su tutti Riva, che a fine campionato si era laureato per la terza volta consecutiva capocannoniere del torneo con 21 gol in 30 partite (nei due anni precedenti aveva chiuso a 18 e 20 reti). Ma non vanno dimenticati il portiere della Nazionale Ricky Albertosi, l’inesauribile ala destra Angelo Domenghini e il brasiliano Nené, che rendevano il gioco del Cagliari spettacolare.
Palla a terra, pochi lanci lunghi, un gran lavoro a centrocampo sfruttando i tagli di Riva: lui fintava di venire al centro e poi chiedeva palla in profondità per poter chiudere con il suo famoso diagonale. Gente come me, che feci 8 gol, Greatti, Brugnera, Nené sapeva benissimo come servirlo.
Queste le parole di Domenghini che sottolineano l’importanza del loro numero 11. In difesa brillavano Comunardo Niccolai, stopper divenuto famoso soprattutto per l’inclinazione agli autogol, e Pierluigi Cera, il primo libero moderno del calcio italiano. Con l’ottima organizzazione di gioco messa in piedi dall’intelligenza di Scopigno, il Cagliari nell’annata ’69-’70 subì appena 11 gol, di cui 8 su azione: un record. Il primato nazionale era solamente la naturale conseguenza di un calcio totale perfettamente espresso.
TANTI AUGURI A VOI E TANTI AUGURI A NOI: “FORZA CAGLIARI“